sabato 2 ottobre 2010

La crisi di Berlusconi nasconde quella sociale









La crisi di Berlusconi nasconde quella sociale

Il dibattito politico sulla fiducia al governo si intreccia a una situazione economica e sociale in pieno declino. Il centrosinistra pensa di risolvere tutto con l'ennesimo "patto sociale" ma il progetto è la scomparsa del conflitto.
di Marco Bertorello (da www.ilmegafonoquotidiano.it)

L'ennesima messinscena parlamentare dell'ultimo voto di fiducia al governo distrae dai movimenti profondi che stanno attraversando la società italiana. O meglio contribuisce a fargli prendere una direzione autonoma proprio dal governo pubblico delle questioni socio-economiche. C'è come una netta divaricazione che si va affermando tra politica ed economia, in cui la prima perde di senso, incapace di padroneggiare scelte e indirizzi di carattere generale, lasciando a briglia sciolta soggetti e interessi presenti sul piano sociale. Capiamoci: la sfera economica ha sempre mantenuto una sorta di autonomia anticipatrice rispetto alla politica, ma oggi non sembra più trattarsi di questo.
La crisi italiana fa sì che si affermi una nuova dinamica nel padroneggiare i processi di cambiamento, con attori che assurgono al ruolo di unici protagonisti. In particolare è quello che sta avvenendo tra imprese da un lato e sindacati dall'altro a imprimere un'accelerazione a questa tendenza, lasciando la politica attardata sulle scaramucce con Berlusconi e i suoi problemi giudiziari, per non parlare delle case a Montecarlo o vicino al Colosseo, e su tutte quelle inchieste giornalistiche, per certi versi le uniche, che ruotano intorno a scandali privati e pubblici di personaggi della nostra presunta classe politica.
Non si tratta tanto di disattenzione o superficialità, quanto del fatto che, a differenza dei giudizi sugli scandali di varia natura, sul resto i commenti e le proposte in Italia convergono quasi completamente lungo l'intero arco politico-culturale.
Il livello di attenzione sociale promosso si attiva sui temi più innocui, mentre pochi si occupano di movimenti profondi ben più consistenti per la ricaduta concreta sulla vita di milioni di persone normali, pochi provano a comprenderli e interpretarli.
L'opposizione, quella che, come dice il comico Crozza, ormai riferimento a proposito di cose serie, «ci invidiano persino in Mongolia (dove l'opposizione non c'è!)», non batte un colpo, anzi se possibile è connivente con ciò che sta accadendo altrove, come dimostra il sostegno all'idea di Patto sociale emersa dal Convegno di Confindustria a Genova. Senza rendersi conto che innanzitutto è in corso un radicale svuotamento della democrazia, persino di quella liberale e parlamentare. La politica non è in grado di dare risposte e dunque ci si affida direttamente al protagonismo degli attori sociali più organizzati, che en passant sono pure i più consociativi.
Si va affermando una sorta di legislatore parallelo che, attraverso strappi e convergenze tra alcune parti sociali, impone un'agenda preconfezionata alla politica. Non che quest'ultima se ne dolga particolarmente, considerata la sua impotenza.
Si parla così della rivoluzione copernicana sostenuta da Marchionne su tutta la partita dei contratti di lavoro, la loro liberalizzazione, le loro deroghe, la possibilità che venga previsto il divieto di sciopero e le penalizzazioni per il ricorso alla mutua in caso di malattia. Una rivoluzione che è partita dal principale produttore italiano di auto e che è stata imposta all'intera categoria dei meccanici e rappresenta ormai il prossimo orizzonte per le relazioni industriali nel loro complesso.
Questo processo viene imposto da uno dei settori più tradizionali del fordismo e dovrebbe far riflettere quanti ormai vedono solo nell'economia della conoscenza la cifra della contemporaneità, senza comprendere di quali complessità e stratificazioni complementari è ancora fatta una società come la nostra.
Ma non solo. Il Patto sociale proposto prende avvio dal sovvertimento dei contratti collettivi di lavoro per giungere al primato dei meccanismi di mercato, al perseguimento di produttività e profitti intesi come palingenesi per l'intero sistema economico, di cui prima o poi i lavoratori e le lavoratrici potranno assaporare le briciole, in una continua e ormai logora politica dei due tempi. In cui oggi il lavoro dà al capitale con la promessa di ricevere in futuro i frutti di un sistema che, come fosse una legge di natura, è orientato a creare ricchezza e crescita per tutti.





In questo quadro Epifani a Genova va oltre la generica disponibilità al confronto, avanzando proposte concrete nella direzione richiesta da Confindustria. Il segretario della Cgil per la prima volta avanza la proposta di alleggerire il contratto nazionale a vantaggio di quelli aziendali e territoriali, senza spiegare il perché di questo mutamento d'impostazione, considerato che non pare siano migliorate le percentuali che quantificano gli accordi di secondo livello presenti in non oltre il 30 per cento delle aziende. Come pensare di evitare ulteriori squilibri e indebolimento per quella massa di lavoro disperso e atomizzato che non vede, e continuerà a non vedere, una prospettiva di tipo sindacale per la difesa di reddito e diritti? Confindustria, infine, avanza espressamente richieste per un disegno di trasformazione del mondo della formazione completamente organico ai suoi interessi parziali.



L'editorialista de Il Sole 24 Ore, Paolo Bricco, ha scritto che c'è bisogno di «respiro per le aziende che affrontano la crisi a mani nude». In verità si tratterebbe di ricordare come la crisi sia anche frutto degli stessi meccanismi distorti che da sempre l'impresa utilizza per vivere, non a caso anche gli industriali si sono dichiarati preoccupati per una regolazione del sistema bancario che finirebbe per far crescere il costo del denaro, contribuendo al corto circuito tra deregolamentazione-eccessi finanziari-crisi-regolazione-ancora crisi. Ma soprattutto il richiamo alle mani nude dà il senso della mistificazione e della portata dell'egemonia anche culturale del capitale. Sovvenzioni, cunei fiscali, incentivi, ribaltamento progressivo delle proporzioni tra redditi da lavoro e da profitti e rendita. Uno studio recente della società di ricerca Met individua in vigore 260 provvedimenti di incentivi e sostegni alle imprese, tra nazionali e regionali, pari a 3.7 miliardi di Euro. Un impegno leggermente ridotto rispetto al passato, considerata anche la crisi dei conti pubblici, ma tutt'altro che trascurabile per la vita economica italiana. L'impresa, dunque, non sopravvive solo di mercato e competizione.
In sintesi l'obiettivo di medio termine per l'impresa e il capitalismo in affanno è provare a fare filotto, cioè far scomparire anche solo l'idea di uno scontro tra classi per mettere al centro unicamente i processi di valorizzazione del capitale. Su questo Berlusconi nel suo intervento in Parlamento prova a non essere ultimo, per quanto la tavola sia già stata apparecchiata da tempo e da altri soggetti, dichiarando che si tratta di archiviare «il modello anacronistico delle relazioni sociali che richiama ancora il conflitto capitale-lavoro».




Come non ricordare di questi tempi la vignetta di Altan sulla fine della lotta di classe in cui l'operaio Cipputi commentava: speriamo che qualcuno l'abbia fatto presente ad Agnelli!
In realtà il conflitto sociale e di classe non si può fermare per decreto e neppure, come le recenti vicende italiane ci ricordano, con un referendum. Una soggettività del lavoro subalterno, magari diversa, riemergerà dalle contraddizioni esistenti e crescenti, altrimenti non si spiega tutto questo impegno sul piano politico, economico e culturale, per fare scomparire persino l'ombra di una dinamica sociale autonoma e cosciente di sé e per sé.

MUSICA PER IL NUOVO POPOLO